Storia e Folklore Calabrese

di Domenico Caruso


Folklore calabrese

La donna calabrese: ieri e oggi

Per i nostri antenati la donna era considerata in condizioni di passiva subalternità nei confronti dell'uomo. La Storia Sacra, addirittura, riporta fin dal suo inizio un episodio non proprio edificante. Verso il 1850 a.C. il Signore disse ad Abramo: "Parti dalla tua terra e vieni nel paese che ti mostrerò. Poi farò di te una grande nazione, ti benedirò e farò grande il tuo nome". A tale invito il semita lasciò la Mesopotamia per trasferirsi in Canaan. Era con lui, unitamente agli altri, la moglie. E stando per entrare in Egitto, Abramo disse a Sara: "So che tu sei una bella donna e che gli Egiziani, appena ti avranno veduto, diranno: - E' sua moglie - e uccideranno me, e lasceranno a te la vita. Di' dunque che sei mia sorella" (Gen.,XII).
Convinse allora la consorte di concedersi al Faraone. In cambio riceverà greggi, armenti, asini, schiavi e cammelli. L'avvenenza femminile, come appare, viene messa a frutto fin dalla Bibbia. Anche nella tradizione popolare calabrese c'imbattiamo spesso in facezie, metafore eufemistiche e domande maliziose:
"Piscinara, chi ti dassàu Patri Gustinu?" (Pescivendola, che cosa t'ha lasciato Padre Agostino?), chiede con ironia l'audace giovane, e la donna di rimando: "Chidu chi 'nci dassàu l'arcipreviti a to' soru!" (Ciò che l'arciprete ha lasciato a tua sorella!).
La forza erotica della donna, è risaputo, non trova paragone con l'uomo:
"Tira cchiù 'nu pilu di fìmmana a la 'nchianata, ca 'nu paricchiu di voi a la calata" (Trascina più un pelo di femmina in salita che un paio di buoi in discesa).
Ma non è questo l'intento del nostro discorso!
Un fantoccio qualsiasi è da preferirsi ad una donna, sostiene un aforisma di San Martino di Taurianova (Reggio Calabria): "Mu jesti omu e puru mu jè di pàgghia". La donna, infatti, ha capelli lunghi e cervello corto: "'A fìmmana 'ndavi i capidi longhi e 'a menti curta". E' ben misera la casa in cui manca un uomo, buono o tristo che sia: "Bonu tizzuni e malu tizzuni, amara chida casa chi no' ndi chiudi!".
Un marito dappoco era superiore a qualsiasi amante imperatore: "Mègghiu maritu nipiteda e no' garzu 'mperaturi".
La nascita di una bambina costituiva motivo di preoccupazione per numerosi genitori, in quanto occorreva predisporre il corredo nuziale: "'A fìgghia 'nda fàscia e 'a doti 'nda càscia". (La figlia in fasce e la dote nel baule).
Venivano privilegiati i maschietti che - oltretutto - garantivano la continuità del casato: "Aundi 'nc'è omu 'nc'è nomu". (Dove c'è uomo c'è nome).
La virilità era una prerogativa indispensabile per gli uomini: "Diu mu ti lìbara di l'òmani spani e d''i fìmmani barvuti!". (Dio ti scansi dagli uomini imberbi e dalle donne barbute!).
Gli incarichi di responsabilità venivano affidati al sesso maschile, alle donne non era permesso accedere a tante cariche pubbliche. All'uomo si confaceva il fucile come al gentil sesso la calza: "All'omu 'a scupetta, a' fìmmana 'a cazetta".
Si diceva ancora a S. Martino, come in altre località calabresi:
"Se voi vidìri 'a bella massara, guàrdala quandu smìccia la lumera".(La vera massaia si rivela intenta ai lavori domestici da mane a sera, fino al lume di candela). La passività imposta rendeva vulnerabile e bisognosa di protezione ogni donna: "'A fìmmana senza statu è comu 'u pani senza lavatu". (La nubile è come il pane senza lievito). Di conseguenza, il matrimonio si celebrava molto presto: "A quindici anni 'a mariti o 'a scanni". (A quindici anni la donna dovrà accasarsi).
Le virtù delle figlie si misuravano dal luogo di provenienza: "La fìmmana com'è faci li cosi, lu focu di chi jè faci li brasi". (Dalle opere si giudica la stirpe, come dalla brace la legna). Ma se il matrimonio procurava dignità, era pur vero che la fortuna della famiglia dipendeva dalla donna: "'A fìmmana faci e 'a fìmmana spaci 'a casa". Non c'era da fidarsi delle donne che perdevano tempo fuori casa: "'A fìmmana chi va' fora no' tila e no' lenzola". (Chi va in giro non disbriga alcun corredo). Era, pertanto, da punire severamente colei che si allontanava senza motivo dalle mura domestiche: "A' fìmmana chi anda, rruppinci la gamba!").
Gli occhi rappresentano ancora la finestra dell'anima: "'A fìmmana vana si canusci all'occhi, l'omu mortu di fami a li stendicchi". (La vanità femminile traspare dagli occhi, l'uomo affamato dagli stiracchiamenti).
La natura può privilegiare una donna facendola nascere graziosa: "Cu' nasci bella nasci maritata". (Non ci sono difficoltà per una bella a trovare marito).
In passato si consigliava di preferire l'avvenenza femminile al danaro: "Se ti mariti pìgghiati 'na bella e no' 'na brutta cu' 'rrobba e dinari: la 'rrobba si 'ndi va' all'acqua e allu ventu, la bella resta e ti la poi prejari". (Le ricchezze andranno dissipate, ma una bella consorte si può ammirare ed amare per sempre).
Una mogliettina carina, inoltre, era motivo di orgoglio: "Cu' havi dinari pocu sempri cunta, cu' 'ndavi 'a muggheri bella sempri canta".
Così i nostri avi più fortunati che lavoravano fuori, lontani da casa, rientravano volentieri a fine settimana per abbracciare la loro amata: "Lu sabatu si chiama allegra cori pe' li muggheri di li foritani: a cu' l'avi bella 'nci allegra lu cori, cu l'avi brutta chi nci torna a fari?".
Ed infine, non c'è rimedio per le megere: "La brutta quand'è brutta di natura, hai vògghia pemmu fai lu strica e lava; la bella quand'è bella di natura, cchiù sciamparata (disordinata) va' e cchiù bella pari!".
"No comment" in quanto le donne calabresi sono meravigliose!

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